INTERVISTA A
LUIGI DE MARCO,
RESEARCH CONSULTANT
Department of Translational Research
National Cancer Center (IRCCS CRO) Aviano, Italy
ADJUNCT PROFESSOR
Department of Molecular and Experimental Medicine
The Scripps Research Institute, La Jolla, California
1. Che cosa è la “Apollo 15 Space Syndrome”?
Durante il viaggio nello spazio dell’Apollo 15 nel 1971, due Astronauti riferirono la comparsa di intensi dolori e gonfiore agli arti inferiori (gambe): in condizioni di microgravity (bassissima o quasi assente forza di gravità, fenomeno che permette agli astronauti di “galleggiare” all’interno della nave spaziale e nello spazio) la parte liquida del sangue, chiamata plasma, esce dal letto sanguigno (vene arterie e capillari) e imbeve i tessuti circostanti comprimendo i vasi stessi e rallentando il fluire del sangue. Questo fenomeno fa soffrire l’endotelio, le piastrelle che tappezzano la parete interna dei vasi, che reagisce infiammandosi e libera sostanze che attivano la formazione di trombi.
I trombi sono coaguli di sangue inopportuni, che bloccano la circolazione del sangue causando ischemia.
Questo accade non solo negli arti inferiori ma in qualunque parte del corpo, inclusi cuore e cervello, e non sempre danno sintomi immediati: infatti uno degli astronauti dell’Apollo 15, una volta arrivato a terra, ha manifestato un chiaro infarto del miocardio, dovuto a un difetto della circolazione nelle arterie coronarie occupate da trombi, che avevano cominciato a formarsi durante il volo spaziale.
2. Come cambia la circolazione del sangue nel corpo di un astronauta nello spazio?
In condizioni di microgravity aumenta la liberazione di adrenalina, un ormone che accelera il ritmo del cuore aumenta la pressione del sangue e riduce il lume delle arterie fino a chiuderle, limitando l’apporto di ossigeno agli organi e contribuendo quindi a causare la morte delle cellule che vengono private del nutrimento essenziale per la sopravvivenza: questo fenomeno è alla base di molte malattie definite nel loro insieme cardiovascolari, come infarto e ictus cerebrale.
Gli astronauti segnalano spesso una specie di allargamento delle dimensioni del viso (pletora facciale), mal di testa, gonfiore in altre parti del corpo e, in alcuni casi, come in quello recentemente riferito dal New England Journal of Medicine – Trombosi della Giugulare, la vena che riporta il sangue dal cervello al cuore. Inoltre in assenza di gravità il volume totale del sangue si espande, il sangue stesso diventa più denso, e quindi più incline a coagulare rispetto al normale.
3. Lei si è occupato già molti anni fa di questo fenomeno: in che cosa consiste la Sua ricerca?
Dal 2001 al 2006, i miei collaboratori ed io abbiamo ottenuto finanziamenti dall’Ente Spaziale Europeo e da quello Italiano destinati a studiare proprio i meccanismi che regolano la capacità del sangue di coagulare in modo appropriato in condizioni molto particolari come quelle descritte: per questo studio abbiamo ideato uno strumento capace di riprodurre le condizioni di flusso del sangue nelle arterie e nelle vene, proprio per meglio comprendere i cambiamenti causati da condizioni ambientali eccezionali quali quelle che si verificano nello spazio e nelle navicelle spaziali, e per riuscire a tracciare un profilo di rischio in ogni singolo astronauta per prevenire eventuali fenomeni da trombosi.
4. Lo stress potrebbe aver scatenato la trombosi della giugulare nell’astronauta?
Lo stress provoca la liberazione di adrenalina, un ormone che aumenta la rapidità del battito del cuore e aumenta la pressione del sangue: è possibile che l’aumento dell’adrenalina e in generale delle catecolamine possa aver facilitato la fuoriuscita di liquidi dalle arterie, che hanno compresso la vena giugulare rallentando il deflusso del sangue dal cervello al cuore e provocando la formazione di un trombo nella giugulare stessa.
5. Si potrebbe dire che questi fenomeni spaziali hanno qualcosa in comune con la sindrome da classe economica?
Anche in aereo la persona si trova in condizioni particolari, certo meno accentuate rispetto a quanto accade in assenza di gravità: l’aria è rarefatta, la concentrazione di ossigeno equivale a quella che si verifica in alta montagna, la posizione scomoda e la ridotta idratazione sono gli eventi scatenanti della trombosi venosa in aereo. Questo evento è ovviamente tanto più probabile quanto più numeroso è il gruppo dei fattori di rischio, di tipo genetico o acquisito, come nelle donne in gravidanza o in terapia ormonale, in coloro che soffrono di malattie infiammatorie o hanno precedenti personali o famigliari per malattie circolatorie da trombosi: è più probabile che durante il volo in condizioni disagiate si formino trombi nelle parti del corpo più lontane dal cuore, trombi che possono sciogliersi spontaneamente e non provocare danni, oppure estendersi all’interno delle vene e frammentarsi liberando emboli che provocano embolia polmonare, molto pericolosi per la sopravvivenza.
6. La microgravity è quindi il grilletto che scatena la trombosi in persone che per definizione dovrebbero essere sanissime come gli astronauti?
Gli Astronauti sono accuratamente studiati dal punto di vista della salute prima ancora di essere arruolati e mantengono uno stile di vita adeguato sotto stretta sorveglianza: non hanno quindi fattori di rischio legati allo stile di vita.
Ma la trombosi è un fenomeno che si verifica nel sangue per l’effetto moltiplicativo di più elementi biochimici, cellule comprese: dipende anche dallo stile di vita, ma certamente dipende anche da altri fattori, alcuni dei quali solo in parte noti, come l’assetto genetico del singolo individuo, e dalla sua storia personale e famigliare.
La trombosi della vena giugulare si verifica più frequentemente in persone fragili, affette da malattie infiammatorie o proliferative, che sono in chemioterapia, che portano cateteri venosi centrali per la somministrazione endovenosa di farmaci. La trombosi diventa ancora più frequente se questi pazienti hanno un assetto genetico predisponente.
In soggetti sanissimi per definizione, come dovrebbero essere gli Astronauti, non sussiste alcuna di queste condizioni: è sicuramente quindi la microgravity il grilletto che fa scattare la trombosi, perché altera la composizione del sangue e le caratteristiche della sua circolazione nelle arterie e nelle vene, favorendo la formazione di trombi: coaguli inopportuni che si verificano in punti e in momenti in cui non si sarebbero dovuti formare.
Negli anni abbiamo continuato a perfezionare la strumentazione alla quale abbiamo cominciato a lavorare anni fa: l’apparecchiatura, nella versione più recente, è certamente utile per valutare il comportamento del sistema della coagulazione del sangue e delle piastrine in condizioni di flusso che mimano quanto accade nella realtà e permette di misurare la formazione spontanea di trombi in persone sane e in persone malate e /o in terapia antitrombotica. Certamente non è ancora pronta per essere trasportata su una nave spaziale, ma potrebbe indubbiamente fornire risposte accurate circa la personale suscettibilità di ciascuno, astronauti inclusi, ad essere colpito da trombosi, a prescindere dai fattori di rischio che ben conosciamo.
7. Significa che il sistema della coagulazione del sangue (emostasi) dovrebbe quindi essere studiato in tutti gli esseri umani?
Assolutamente SI.
Ognuno di noi è più o meno simile ad altri, ma non identico: in situazioni di normalità e in situazioni di rischio quali la microgravity, ma anche la sala operatoria o la presenza di malattie gravi, il sistema della coagulazione reagisce in modo particolare in ognuno di noi: tenerlo sotto controllo può richiedere terapie o provvedimenti personalizzati, in modo che funzioni come deve senza provocare emorragie o trombi.
Vorremmo arrivare ad avere uno strumento che in modo rapido, affidabile e poco costoso permetta ad ogni medico di capire quale sia il potenziale trombogenico di ogni singolo individuo, in situazioni di normalità o di emergenza: a maggior ragione in coloro che si candideranno a viaggiare su navicelle spaziali con destinazione Luna o altri pianeti, come alcuni ricchi imprenditori sognano.
Conclusioni
Curare l’organo colpito da trombosi è fondamentale per la sopravvivenza e la qualità della vita del paziente, prevenire la trombosi è obbligatorio in pazienti fragili o a rischio, far conoscere che cosa significa trombosi al più vasto pubblico possibile è fondamentale per dotare ciascuno delle conoscenze necessarie per poter prendere decisioni importanti sul proprio stile di vita e sulla propria salute: perché un giorno nessuno possa dire ” io non lo sapevo….” per questo è nata ALT, che da oltre 30 anni lavora con tenacia e competenza e dovrà continuare a lavorare….da oggi in poi anche con uno sguardo al cielo!!!!!!
LUIGI DE MARCO
Dottore in Medicina e Chirurgia, ha conseguito i Diplomi in specializzazione in Ematologia, Medicina Nucleare e in Biologia Clinica, all’Università di Medicina e Chirurgia di Padova. Ha collaborato con numerosi centri di ricerca e Università a livello nazionale ed internazionale, come il St. Thomas Hospital di Londra, il Jefferson Medical College of Thomas Jefferson University di Philadelphia in Pennsylvania, The Scripps Research Institute, La Jolla in California e l’Ospedale di Pordenone.
Dal 1989 collabora con il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, per il quale è stato Capo Dipartimento di Diagnostica per Laboratori e Diagnostica per Immagini (2002 – 2007), Responsabile, Dipartimento di Laboratori diagnostici e terapia cellulare (2007 – 2012) e Consulente di ricerca. È docente presso lo Scripps Research Institute, La Jolla, California. È un autorevole esponente della Società italiana per emostasi e trombosi, della Società internazionale per emostasi e trombosi e dell’American Society of Hematology.