Rosa era stata sempre bellissima, da quando era nata: aveva quasi sessant’anni, ma lo specchio non era malevolo con lei, il suo viso era ancora lo stesso, con la bocca ben disegnata, i lunghi capelli, gli occhi intensi e curiosi, qualche piccola ruga addolciva il suo sorriso, a ricordo della morbidezza di alcuni momenti della sua vita, soprattutto a Ibiza, nella campagna con la terra rossastra, gli ulivi d’argento, il cielo blu e vicino, a confondersi con il mare.
Le rughe profonde non le guardava, per non vederle: erano le tracce del dolore, e non voleva ricordare.
Non era riuscita ad avere un figlio, aveva paura di invecchiare da sola. Da qualche giorno si sentiva il collo teso, ogni movimento rendeva la testa più pesante. Era un momentaccio: finito anche il suo amore, trascinato negli ultimi anni, era molto stanca. Sentiva bisogno di pace.
Da qualche giorno aveva anche ripreso a fumare, di nascosto, qualche sigaretta: che male le poteva fare… faceva bene al suo cervello. Non esattamente.
Il peso delle borse l’aveva costretta a fermarsi sulla soglia del supermercato: lì era cominciato il disastro, il mondo aveva preso a girare vorticosamente, la testa non si reggeva sul collo: toglietemi questo velo dalla faccia, non vedo.
Un velo inesistente era dentro di lei.
Avrebbe voluto aggrapparsi all’uomo che le stava accanto, ma la mano destra non voleva saperne di rispondere, non obbediva ai suoi comandi, se ne stava li flaccida e vuota come senza vita, lungo il corpo. E non riusciva a spiccicare nemmeno una parola per chiedere aiuto, un pesce muto, nella sua bocca…
Tutta colpa di una carotide. Mai sentita nominare prima.
La sinistra. Mai saputo di averne due. Un’arteria: credeva fosse uguale a una vena. Sembrava di no.
E del colesterolo, alto, mai saputo. Mai misurato. Non era mai stata grassa.
E di una placca, un enorme brufolo che si era formato sulla parete dell’arteria, scatenando il finimondo, confondendo il sistema della coagulazione, che aveva messo in ballo tutte le sue armi per guarirlo… bel successo, si era formato un coagulone, che aveva provveduto a disseminare qualche frammento nella circolazione del sangue, fino al cervello, il suo cervello…
Tecnicamente si chiamava TIA) attacco ischemico transitorio.
Transitorio per definizione, infatti se ne era andato, lasciando pochi strascichi. Attacco eccome, l’aveva aggredita come un aereo da guerra. Ischemico aveva imparato che cosa vuol dire: mancanza di sangue, mancanza di ossigeno per le cellule, che soffrono e smettono di funzionare.
Ma i complici non erano finiti: gli ormoni che prendeva per. ché lo facevano anche le sue amiche, per non invecchiare, per rallentare l’aggressione delle rughe, per avere una vita sessuale piacevole, le avevano dato il colpo finale.
E poi era stato scovato anche l’ultimo colpevole, la mutazione della protrombina! Non sapeva nemmeno che nel suo corpo circolasse qualcosa chiamato protrombina, le sarebbe piaciuto vederla in faccia, questa sua protrombina mutata come un alieno. La dottoressa le aveva spiegato che la sua fabbrica di protrombina era scadente, e sfornava un po’ di protrombina sana e un po’ di protrombina di scarto: pur disastrata, aveva tenuto duro tutta la vita, la sua protrombina, ed era riuscita a mantenere un po’ di ordine nel sistema della coagulazione del sangue, per tanti anni: ma alla fine era stata sopraffatta, troppi nemici, troppi attacchi.
Ne rimaneva ancora uno, il complice più fetente, più subdolo: la pressione del sangue. Mai misurata.
Era l’ultimo tassello del puzzle.
Nei giorni trascorsi in ospedale si era sentita disperatamente sola, anche se non era vero. Isolata dal mondo, poteva parlare ma non ne aveva voglia, poteva sentire ma voleva essere sorda, voleva solo piangere, ma le sembrava di piangere solo con metà della faccia. Era spaventata, aveva paura.
Con la mano andava meglio, formicolava, ma riusciva a muoverla, rispondeva ai suoi comandi.
Ma la testa: terribile, la sensazione di vuoto, di formicolio, tesa come la corda di un violino.
Il medico si era avvicinato al suo letto, aveva preso la sedia, era rimasto zitto per un po’, osservandola: poi aveva cominciato a parlare, con una voce dolce, profonda, parlava piano, e la scrutava, cercando un segno di comprensione sul suo viso.
Le stava parlando di un intervento per ripulire l’arteria, poteva anche rimanere senza voce per un po’ ma poi le sarebbe tornata.
Certo, ci mancava solo che diventasse muta.
Avrebbe anche potuto avere un ictus, durante l’intervento, ma era improbabile, perché era giovane.
Fantastico, magnifica prospettiva.
E comunque le sarebbe potuto venire un ictus lo stesso, anche senza farsi operare… con la placca che si ritrovava… ma perché non la smetteva? Perché non capiva che lei era stanca, aveva paura, non aveva voglia di ascoltare? Lui faceva del suo meglio, lei lo capiva, ma tutte quelle storie di chirurgia, placche, bisturi, ischemie in quel momento la riempivano di terrore.
Invece no.
Si era fidata, si era affidata al chirurgo, sapendo che avrebbe per sempre portato sul collo una ferita, sottile, come una decorazione, forse avrebbe anche potuto tatuarla, magari, in un momento di follia, in seguito, a Ibiza…
La sua carotide era stata ripulita, non era successo niente, non aveva perso la voce, si sentiva un leone.
Rideva all’idea del nome dell’intervento che le avevano fatto, e che avrebbe forse presto dimenticato: tromboendoarterectomia carotidea: ma per favore! Non potevano trovare qualcosa di più semplice? Di più raccontabile? In effetti sì, i medici fra loro la chiamavano TEA, andava già meglio.
Dall’aereo lo spettacolo della sua isola magica era di nuovo li: aveva da fare con gli ulivi, erano da potare, e doveva mettersi d’accordo con l’uomo del frantoio, per l’anno prossimo: un anno sì, un anno no, per avere l’olio.
Il prossimo sarebbe stato un anno sì, e lei avrebbe avuto le olive per fare l’olio e aveva la vita.
Sarebbe stato un anno sì anche per lei, non solo per la sua terra.